Chi è Dejanira Bada
Ho sempre temuto più la vita della morte. E così mia madre, che ha sempre vissuto in preda all’ansia, al terrore e alla rabbia. Non ho mai avuto un bel rapporto con lei, fino al giorno in cui si è ammalata.
Un giorno, a causa di una forma di parkinsonismo simile alla SLA, si è trasformata in una statua. Ha smesso di mangiare, camminare, parlare, ma è proprio in quel silenzio e in quell’appropinquarsi verso la morte che ci siamo riavvicinate.
Sono cresciuta in una famiglia disfunzionale. Ho subìto violenza psicologica per anni. I miei genitori litigavano e urlavano spesso davanti a me e a mia sorella, soprattutto per la mancanza di soldi.
Non abbiamo mai avuto nemmeno una nostra cameretta dove andare a rifugiarci. Fino ai diciotto anni abbiamo dormito in quattro in una stanza da letto molto piccola.
Spesso mi chiudevo in bagno e mi tagliuzzavo il polso con una forbicina. Quel dolore faceva meno male delle urla. Era gestibile. Ne avevo il controllo.
Negli anni ho sviluppato una grave forma d’ansia. Quando andavo alle medie ho sofferto di asma da stress e mi bloccavo, non riuscivo a parlare in pubblico, nemmeno quando venivo interrogata a scuola, anche quando ero preparata. Sono stata anche bullizzata.
Ho sofferto di depressione e di un disturbo ossessivo compulsivo derivato dai traumi subìti a causa delle urla e della durezza di mio padre e di una madre anaffettiva.
Durante l’adolescenza ho placato il dolore usando droghe di ogni tipo e alcol, soprattutto. Ero una rockettara ossessionata da Kurt Cobain che ascoltava solo Nirvana, Radiohead, Smashing Pumpinks, Pearl Jam, e che usciva anche con i punkabbestia della Milano anni ’90, tra discoteche dark e rave.
Fu una mia professoressa ad accorgersi che c’era qualcosa che non andava. Ero sempre stata una studentessa bravissima. Cosa mi stava succedendo? Mi mandò dalla psicologa della scuola. Per fortuna accettai perché mi piaceva l’idea di apparire “matta”.
Iniziai un percorso di psicoterapia che mi aiutò a smettere di assumere droghe pesanti, che però interruppi per scappare e andare a vivere a Londra a diciannove anni. Mai idea fu più sbagliata. Finii nei peggiori rave e club di Londra, sempre ubriaca, con uomini che si approfittavano di me.
Dopo quattro mesi decisi di tornare a vivere a Milano. Iniziai subito a vedere uno psichiatra del Fatebenefratelli perché non riuscivo più a dormire. Ero diventata bulimica e fui assalita anche da ossessioni che mi portavano ad avere tendenze suicide.
Fu l’inizio di un lungo percorso tra psicofarmaci, psicologi e psichiatri che mi salvarono la vita. E furono una salvezza anche la musica, la lettura e soprattutto la scrittura. Conservo ancora oggi ben ventidue diari scritti nel corso degli anni, in particolare durante l’adolescenza, quando mi chiudevo in cucina con le cuffie per non sentire più nulla.
Per quattro anni ho frequentato anche una psicologa specializzata in EMDR per riuscire a “disinnescare” queste ferite dovute ai traumi che si riaprivano ogni volta che mi ritrovavo ad affrontare delle difficoltà.
Nel frattempo, non so come, riuscii anche a iscrivermi a Filosofia alla Statale di Milano, facendo tre lavori per pagarmi le rette e i libri. Non riuscii a finirla, ma cominciai a scrivere e a fare la giornalista, diventando nel giro di qualche anno una critica musicale e d’arte.
Parlerò molto di tutto questo nel mio prossimo libro (che uscirà a breve). Aprirò il mio cuore, racconterò la mia storia, e cosa è necessario fare per non soccombere quando tutto sembra crollarci addosso.
Com’è nato Mindfulness Wave
Poi è arrivata lei, la meditazione, che incontrai grazie a un amico che era stato un grande frequentatore di concerti come me. Soffrivo (e soffro ancora oggi) della sindrome dell’intestino irritabile, e mi sembrò una buona idea provare questo tipo di discipline per gestire lo stress.
Anni prima una psicologa mi aveva suggerito di provare una lezione di yoga ma, come ho scritto in alcuni miei articoli e libri, alla fine della pratica scappai via per andarmi a bere sei birre. Lo yoga ti sbatte in faccia il dolore che hai dentro, ma io, in quel momento, non volevo sentire un bel niente.
Ho scoperto prima lo yoga, poi la mindfulness, una pratica che mi ha aiutato talmente tanto da essere diventata la mia vita, la mia professione, la mia vocazione.
Il Protocollo MBSR (che insegno io stessa) il metodo ufficiale per la riduzione dello stress basato sulla mindfulness, è nato in contesti ospedalieri grazie al biologo statunitense Jon Kabat-Zinn, ed è adatto anche ai laici, agli atei o ai fedeli di qualunque religione, pur prendendo ispirazione da vari stili di meditazione orientale.
La pratica mi ha insegnato a farcela anche da sola, a non essere più schiava dei miei condizionamenti mentali. Cogliere l’impermanenza e la non veridicità dei miei processi cognitivi mi ha aiutato a gestire le ossessioni, i momenti d’ansia e quelli depressivi, che faranno sempre parte di me.
La meditazione non è rilassamento, non è pensiero positivo, non insegna a non sentire o a evitare il dolore ma a passarci attraverso e a entrare in una dimensione di accettazione. Il primo passo è cominciare ad amarci e ad abbracciare le parti ferite dentro di noi.
Oggi ho perdonato. Ho capito. Non porto rancore. Vado d’accordo con mio padre. E mia madre purtroppo è morta. E devo dirlo: gli ultimi giorni insieme, sul letto di morte, forse sono stati i momenti più belli mai passati insieme, belli come quando ero bambina, quando lei era ancora in grado di amarmi.
Sono quasi quindici anni che ho lasciato la carriera di giornalista musicale e d’arte e che ho iniziato a studiare, a formarmi, a praticare, ad andare a ritiri, a viaggiare in Oriente, fino a diventare un’insegnante ed esperta di mindfulness, istruttrice certificata del Protocollo MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction®) e Mindfulness Professional Trainer®, insegnante di yoga e meditazione RYT 500, divulgatrice, studiosa, scrittrice e autrice di numerosi libri di successo per le più grandi case editrici, da Giunti, Piemme, Gribaudo.
Faccio un lavoro che mi fa amare me stessa, che mi ha reso fiera, orgogliosa, utile, che mi incentiva ogni giorno.
La mindfulness è qualcosa di magico, un superpotere, come hanno detto alcuni miei allievi, qualcosa che ti cambia per sempre.
Ho imparato a farmi amare, anche se ho sempre pensato di non meritarlo. Non vado in terapia da anni. Non prendo droghe dal 2003, non bevo alcol dal 2012 e non prendo psicofarmaci dal 2013.
Ho trovato quello che nella filosofia giapponese viene definito “ikigai”: la motivazione che ti porta ad alzarti dal letto tutte le mattine, facendo ciò che ami, ciò che sai fare bene, essere pagato per farlo e che soprattutto può essere d’aiuto per gli altri.
Perché questo logo?
L’idea per il logo di Mindfulness Wave mi è balenata guardando un dipinto appeso nella mia camera da letto.
Anni fa ho fatto un viaggio in Tibet partendo da Kathmandu. Ho trascorso quasi venti giorni sul tetto del mondo e dieci nella capitale del Nepal. Durante il mio soggiorno a Kathmandu giravo spesso per i mercati di questa caotica, affascinante e polverosa città.
Un giorno sono andata alla ricerca di un’immagine ben precisa ritratta su un thangka – dipinti che rappresentano divinità, storie o il Buddha stesso e che poi vengono posti sulle delle stoffe pregiate.
Ero alla ricerca di Shiné, che in tibetano è anche il nome della pratica del Calmo dimorare, in sanscrito “Śamatha”, nonché, – come scritto nel mio saggio Il pensiero tibetano. Comprendere la via buddhista alla pace della mente – “il nome di un famoso dipinto che raffigura un monaco nell’atto di inseguire un elefante nero, ovvero la sua mente. L’inseguimento consiste in nove stadi, che lo condurranno infine alla meditazione Lhag-mthong, la pratica della visione profonda o analitica, che ha inizio con il decimo e undicesimo stadio e che gli consentirà di raggiungere l’illuminazione”.
Ne trovai uno bellissimo, lo comprai e lo portai a Milano con me. Ricordo che una sera ero sdraiata a letto e stavo pensando a quale logo scegliere per il mio progetto. Guardai a lungo quel thangka e, mentre lo fissavo, le figure ritratte iniziarono come a scomparire. Niente più elefante, scimmia, coniglio, monaco, fiamme… rimase solo quel sentiero con cinque curve. Eccolo lì il mio logo.
E mi sono affezionata talmente tanto a quel sentiero da averlo usato anche per scrivere il mio saggio Il pensiero tibetano, dedicando ogni capitolo a uno stadio, dal primo, in cui “il monaco lascia la sua casa e inizia il viaggio spirituale con l’obiettivo di placare la mente”, fino all’undicesimo, in cui “comincia la meditazione Lhag-mthong, Vipaśyanā, dove in cima al cammino c’è l’illuminazione, la comprensione che tutto è vacuità: tutto è impermanente, tutto è interconnesso. Concetti apparentemente complicati ma che, una volta avvicinati, possono condurre anche l’uomo occidentale a vivere la propria quotidianità in modo diverso, più profondo e liberatorio”.
Anche la mindfulness prende ispirazione da questo cammino di consapevolezza; ogni tipo di meditazione parte da Shiné, dal Calmo dimorare, e ci conduce a una visione profonda delle cose.
La meditazione ci insegna che è possibile imparare ad addestrare quell’elefante in corsa, che non è altro che la nostra mente. Per questo non dobbiamo averne paura.
Chiudo questo breve racconto con le parole che ho usato per concludere anche il mio bestseller Il pensiero tibetano, perché noi prendiamo forma quando cadiamo, durante le crisi, quando siamo costretti a dimostrare chi siamo, quando le cose si fanno difficili.
“Dopo innumerevoli pellegrinaggi, anni di studio, di ricerca, di pratica, credo di aver a malapena lasciato la mia casa. Come tutti, sto ancora rincorrendo l’elefante. A volte lo raggiungo, a volte la corda della consapevolezza si spezza; spesso la scimmia mi fa impazzire. Certi giorni riesco a raggiungere un diffuso senso di pace e la mente mi appare come un limpido cielo: allora mi sembra di non aver bisogno di altro, posso prendermi una tregua dai tormenti della mente e dissetarmi. Il percorso è lungo, dura una vita (o più vite) e credo con tutto il cuore che ognuno debba trovare il proprio, indipendentemente da quello che ci sarà o non ci sarà dopo la morte. Perché, come scrisse il fisico Werner Karl Heisenberg: «Non solo l’universo è più strano di quanto pensiamo, è persino più strano di quanto possiamo pensare»”.