L’Ulisse di James Joyce è una scalata, non una lettura. Molti sono riusciti ad arrivare alla fine, altri lo hanno trovato impossibile e hanno letto degli estratti o l’hanno sfogliato. Però tutti lo conoscono. È una pietra miliare della letteratura, uno di quei classici che ha fatto la storia.
E un giorno, al termine di una pratica di meditazione, è arrivato un pensiero nella mia mente: se James Joyce fosse stato un praticante di meditazione, avrebbe scritto l’Ulisse?
Forse lo avrebbe scritto comunque per dare sfogo a quel flusso di coscienza che si attiva quando siamo a riposo, che per le neuroscienze ha il nome di default mode network, quello stato naturale della nostra mente che quando non siamo concentrati su qualcosa in particolare, ci fa ritrovare a pensare continuamente al passato, al futuro, a noi stessi e agli altri, riflettendo, giudicando e via dicendo. Quel sognare a occhi aperti comune a tutti noi e che spesso è causa di molte angosce, dato che per la maggior parte delle volte i pensieri che ci accompagnano sono spiacevoli se non addirittura catastrofici.
La meditazione ci insegna a controllare questo stato della mente. Quando portiamo la nostra attenzione al respiro per iniziare la pratica, i pensieri arrivano e vogliono la nostra attenzione. Accorgersi dell’arrivo di un pensiero, osservarlo senza aggrapparsi e senza farlo diventare un ‘discorso’, accettarlo per quello che è, per poi lasciarlo andare e tornare a concentrarsi sul respiro, vuol dire già meditare. È il processo della metacognizione, la capacità di accorgersi dei propri processi cognitivi.
Nell’Ulisse, Joyce ha scritto esattamente tutto quello che avviene quando il default mode network è attivo. Il punto è che per un meditante di lunga data, la consapevolezza aperta è una condizione quasi permanente. Uno yogi, per esempio, non medita soltanto quando si siede su un cuscino ma vive il momento presente e ha controllo sui processi cognitivi in ogni istante della giornata. Più si medita e più si comprende che la consapevolezza diventa una costante e non un qualcosa da andare a cercare solo durante la pratica seduta, camminata o quel che sia. Se Joyce avesse consacrato la sua vita alla meditazione, forse non avrebbe mai scritto l’Ulisse, perché l’esperienza del flusso di coscienza sarebbe stata troppo lontana dal suo modo di vivere, sentire e percepire il mondo. Se avesse iniziato a meditare in età adulta, magari lo avrebbe scritto comunque proprio per indagare i meccanismi della mente e che cosa avviene perennemente nel nostro cervello quando non ci si trova in uno stato di piena consapevolezza.
Per esempio. Prendiamo un passaggio dell’Ulisse: “Mr Bloom ammirava la massa imponente del custode. Tutti ci tengono a essere in buoni rapporti con lui. Brava persona, John O’Connell, davvero un brav’uomo. Chiavi: come l’inserzione della ditta Keyes: non c’è pericolo che uno scappi, niente controlli all’uscita. Habeas corpus. Devo pensare a quell’inserzione dopo il funerale. Ho scritto Ballsbridge sulla busta che ho preso per coprire quando lei mi ha disturbato mentre scrivevo a Martha? Speriamo che non sia insabbiata nel reparto lettere smarrite. Farebbe meglio a farsi la barba. Barba grigia e dura. È il primo segno quando i capelli diventano grigi e il carattere s’inacidisce. Fili d’argento in mezzo ai grigi. Figurati a essere sua moglie. C’è da domandarsi come ebbe la faccia di dichiararsi a una ragazza. Un cuore e un cimitero. Farglielo brillare davanti agli occhi. Potrebbe anche stuzzicarla, dapprincipio. Fare la corte alla morte… Le ombre della notte aleggiano intorno con tutti i morti stesi qua e di là. Le ombre delle tombe quando i cimiteri sbadigliano e Daniel O’Connell dev’essere un discendente credo chi è che diceva che era un bel tipo di stallone gran cattolico lo stesso come un colosso nell’oscurità. Fuochi fatui. Gas delle tombe. Bisogna non ci pensi mai se vuol rimanere incinta. Le donne poi sono così suscettibili. Raccontarle una storia di fantasmi a letto per farla dormire. Hai mai visto un fantasma? Be’, io sì. Era una notte buia come un forno. L’orologio stava per battere la mezzanotte. Capaci di baciare lo stesso se sono eccitate a dovere. Prostitute nei cimiteri turchi. Imparano qualunque cosa se si prendono giovani. Si può anche pescare una vedovella qui. Gli uomini son fatti così. Amore tra le tombe. Romeo. Salsa piccante del piacere. Nel mezzo della morte siamo in vita. Gli estremi si toccano. Supplizio di Tantalo per i poveri morti. Odore di braciole alla graticola per morti di fame che si divorano le viscere. Desiderio di titillare la gente. Molly lo voleva fare alla finestra. Comunque ne ha otto di figli…”.
Potete vedere affiorare chiaramente il giudizio, le associazioni, il vagare, i ricordi che arrivano dal passato, il desiderio, in questo flusso di coscienza che si dipana quando il default mode network è attivo.
Ebbene, è tutto quello che con la meditazione si evita di fare. Nel momento in cui iniziamo la pratica, noi osserviamo tutto quello che accade nella mente, portiamo l’attenzione al respiro, e ogni volta che la mente inizia a pensare “Dovrebbero essere i fiori del sonno. I cimiteri cinesi con piantagioni di papaveri giganti producono il miglio oppio m’ha detto Matiansky. L’orto botanico è subito dietro. Il sangue succhiato dalla terra dà una nuova vita. La stessa idea di quegli ebrei che si diceva avessero ucciso un ragazzo cristiano. Ogni uomo ha il suo prezzo. Cadavere grasso di signore, ben conservato, un epicureo, prezioso per un frutteto. Un affare. […]”, noi ce ne accorgiamo e torniamo al respiro. Come ho scritto poco sopra, accorgersi di aver iniziato a ‘vagare’ è già meditare, e una volta che ce ne siamo accorti, torniamo con gentilezza al respiro. Ogni volta. Tutte le volte. Più si medita e più si riuscirà a stare a lungo con il respiro. Appena vediamo arrivare un pensiero, l’importante è non aggrapparvisi e quindi non iniziare a pensare. Non appena ci accorgiamo che arriva una frase “dovrebbero essere i fiori del sonno…”, la accogliamo e la lasciamo andare, evitando che arrivino tutte le considerazioni che ne seguirebbero.
Alcuni pensano che la meditazione porti ad annullare il pensiero, a diventare delle amebe che non danno più adito alla creatività, ma la mente non smette mai di fare il suo lavoro, e cioè di trovarsi in quel costante flusso di coscienza. I meditanti non smettono di riflettere, di ragionare: è che semplicemente non si arrovellano a cercare risposte o soluzioni. Più la mente è calma e in quiete e più giungono quelle che conosciamo come intuizioni, nella psicanalisi insight, e anche la stessa ‘illuminazione’ delle pratiche orientali arriva come un’intuizione, quando e se arriva. Non è frutto di un discorso mentale lungo e complicato. Sappiamo, inoltre, che spesso anche le soluzioni a immensi grattacapi della scienza sono arrivate durante una passeggiata, guardando un albero o il cielo.
In Occidente siamo abituati a credere che solo con il pensiero e il ragionamento si possa raggiungere la saggezza e capire le cose, in Oriente è l’esatto opposto, anche perché per loro, cercare di classificare, etichettare, nominare ogni cosa è niente più che maya, l’illusione della nostra mente di poter spiegare i fenomeni del mondo con le parole e il linguaggio che conosciamo. La filosofia orientale ha un immenso pregio, ed è per questo che è più viva che mai rispetto ai nostri polverosi filosofi. L’Oriente ha trovato un mezzo: la meditazione, con la quale ha reso la speculazione filosofica un’esperienza, non soltanto qualcosa da studiare, non solo pensiero, ma esperienza dei fenomeni della mente, un processo di comprensione che arriva dalla pratica e non dalla lettura. Per gli orientali la maggior parte dei concetti, la verità finale, non è qualcosa di spiegabile ed esprimibile a parole. Tutto è mente, e forme, e non mente e materia, e la forma è il vuoto.
Il cognitivista Steven Pinker, nel suo Illuminismo adesso, scrive che secondo lui persone come Immanuel Kant oggi sarebbero anche loro cognitivisti, terapeuti, e non solo filosofi. Userebbero un mezzo, un metodo, non sarebbero solo pensatori. Anche la nostra scienza usa dei mezzi, dei metodi, attraverso la ricerca, gli esperimenti, per cercare di cogliere il significato di tutto quello che ci circonda e di noi stessi. A ognuno il suo.
La meditazione non è sinonimo di lobotomizzazione. Meditando s’imparano a gestire i pensieri ossessivi e disturbanti, quelli negativi e depressivi ma qui sorge un’altra domanda. Per uno scrittore, un artista, questi pensieri servono – proprio come nel caso di Joyce –, possono essere d’ispirazione, costituire la spinta a comporre qualcosa spesso con l’intento di gestirli, di liberarsene. L’artista può meditare?
David Lynch pratica e diffonde la “Meditazione Trascendentale”, quella stessa meditazione fondata da Maharishi Mahesh Yogi, il guru dei Beatles, pratica su cui esistono non poche controversie. La meditazione quanto ha influenzato Lynch nei suoi lavori? Pare abbia iniziato a praticare negli anni ’70. I suoi lavori sono migliorati, cambiati, peggiorati? C’entra la meditazione? Tutti cambiano, molti artisti hanno smesso di fare film o di dipingere in un certo modo semplicemente perché sono cresciuti, ma se fosse anche la meditazione a cambiare il nostro modo di esprimerci? Sarebbe interessante studiare questo aspetto a livello scientifico, perché credo che la meditazione liberi da un profondo disagio di fondo. Cambia il modo di vedere il mondo e l’universo in cui viviamo. Cambia il nostro modo di pensare a noi stessi e agli altri. Chi pratica qui in Occidente non diventa certo uno yogi, ma anche se si pratica con costanza per pochi minuti al giorno e senza fini spirituali, gli effetti e i cambiamenti si sentono, ci sono.
Il monaco inglese Ajahn Brahm, nel suo libro Consapevolezza beatitudine e oltre, arriva a dire una cosa che fa riflettere: “Se siete veramente soddisfatti, non avete bisogno di dire niente. Non è forse vero che la maggior parte delle conversazioni interiori assume la forma della lamentela, del tentativo di cambiare le cose, o del desiderio di fare qualcos’altro? O che esse conducono alla fuga nel mondo dei pensieri e delle idee? Pensare indica una mancanza di appagamento: se siete veramente contenti, siete immobili e quieti. Vedete se riuscite ad approfondire il vostro appagamento, perché esso è l’antidoto all’irrequietezza”.
Nel libro, Brahm racconta anche che la beatitudine che si raggiunge con stati profondi di meditazione è molto meglio del sesso, di qualunque musica e arte. Non c’è più bisogno di evasione, divertimento, televisione, distrazioni. Per i monaci è il silenzio della mente lo stato per eccellenza che porta a provare attimi di estrema beatitudine fino a provare estasi spirituali che possono condurre all’illuminazione. Me per gli scrittori, i poeti, i cantanti, sono proprio le emozioni, i pensieri, le riflessioni, il disagio o la gioia di un grande amore a dar vita alle opere d’arte.
Come fa un artista a meditare e a creare allo stesso tempo? Non stiamo parlando di persone come me che praticano per meno di un’ora al giorno, e scrivono, e vivono la propria vita normalmente. Scrittori, poeti, artisti, potrebbero meditare come i monaci per otto o dodici ore al giorno o non creerebbero più nulla? Anche molti monaci e preti dipingono, scrivono libri, si esprimono con metafore, poesie ma i loro argomenti riguardano sempre e soltanto Dio. La loro mente potrebbe dar vita a opere letterarie, quadri, musica, senza essere influenzata dalla meditazione o dalla preghiera? Soprattutto, sentirebbero la necessità di esprimersi non vivendo più un disagio interiore ed esistenziale? Lo stesso vale per i nostri preti che consacrano la propria vita a Dio. Scegliere Dio equivale a rinunciare alla propria espressione artistica? Giusto? Dio o la ricerca dell’illuminazione compensa ogni necessità di espressione intellettuale? Non lo so. È una scelta, d’altronde, è una consacrazione anche quella alla scrittura, alla pittura, alla musica. Non si può essere un monaco e un artista, come un artista non potrà mai essere un monaco perché alla mente non verrebbe concesso spazio per esprimersi?
Molti grandi artisti hanno sofferto di depressione. E se fossero guariti? Se per esempio avessero iniziato a frequentare il Protocollo MBCT della mindfulness per sconfiggere le ricadute della depressione maggiore avremmo perso opere di grandi artisti? Questo concetto mi fa tornare alla mente un’altra cosa. Molti artisti, nonostante il loro vivere in maniera dissoluta, non hanno mai voluto smettere di drogarsi e non sono mai voluti andare in analisi per paura di perdere la loro vena creativa, l’ispirazione. Ricordo che una volta lessi un’intervista in cui Brian Molko, cantante dei Placebo, disse di aver dovuto smettere di prendere psicofarmaci perché non riusciva più a scrivere una canzone.
O forse gli artisti che meditano o vanno in analisi e che in passato hanno vissuto dei traumi, semplicemente riescono a esprimere il disagio senza però farsi travolgere dalle emozioni? Hanno controllo sui propri processi cognitivi? Il malessere si può incanalare e inserirlo nell’opera pur vivendolo con distacco, oppure la necessità dell’espressione artistica arriva solo nel momento in cui viviamo il disagio?
Gli alberi di Van Gogh, se Van Gogh avesse meditato, sarebbero stati meno contorti? Munch avrebbe dipinto L’Urlo? Pollock avrebbe realizzato quei dripping che sembrano un vero e proprio groviglio neurale? Van Gogh diceva di dipingere quando stava bene e non quando stava male. Se avesse meditato o se fosse addirittura andato in analisi, avrebbe dipinto di più e meglio e non sarebbe stato suicidato dalla società?
Non so come chiudere questo articolo. Non ho risposte, non ho spiegazioni, solo altre domande che farei a me stessa e a voi. Ne è venuto fuori un flusso di coscienza. Vado a meditare. Magari arriva un’intuizione. O forse no. Cosa penseranno? Devo pure andare a fare la spesa. Il cane lo porto dopo. Cenerò alle ventuno. Anni fa non lo avrei mai fatto. Le foglie pungono le nuvole. Però se…
Articolo tratto da Pangea