Soul è un inno alla consapevolezza

 

Adoro i cartoni animati, e come molti di voi anch’io sono cresciuta con quelli della Disney.

 

Per Natale il canale Disney ha distribuito in streaming il nuovo film Pixar Soul, che come il bellissimo Mulan sarebbe dovuto uscire al cinema. Soul sta già facendo molto parlare di sé. Basta vedere i post sui social e gli articoli che sono usciti dal 26 dicembre a oggi.

 

Perché questo successo?

 

Dopo quel capolavoro di psicanalisi che è Inside Out – e che mi ha commosso fino alle lacrime – la Disney ha fatto un salto di qualità. Quello però che ci si comincia a chiedere è: siamo sicuri che la Disney faccia ancora film per bambini?

 

Soul parla di morte. Ho iniziato a vederlo perché non mi perdo un film della Disney, ma speravo anche di distrarmi dal mio lavoro e dai miei soliti interessi: morte, coscienza, religione, aldilà, meditazione, mindfulness, bla bla… e invece no: alla fine Soul è un inno alla consapevolezza. Non è sempre facile spiegare cosa vuol dire “vivere il momento presente”, cogliere “il qui e ora” e cose simili. Be’, ora vi aiuterà Soul a capirlo.

 

Il regista è il premio Oscar Pete Docter, padre di Inside Out e anche del poetico Up, e pure sceneggiatore di Toy Story e del commuovente Wall-E. Insomma, Docter è il Bergman della Disney. La musica del film è stata affidata al mitico Trent Reznor dei miei adorati Nine Inch Nails. Già solo per questo Soul merita di essere quantomeno ascoltato.

 

La storia? Joe, il protagonista, è un maestro di musica delle medie, il classico insegnante frustrato che dirige una banda musicale di ragazzini. Il suo sogno infranto è quello di diventare un grande musicista jazz. Perché Joe è bravo, ma la vita a volte prende strade che non ci saremmo aspettati. Un giorno Joe incontra un amico che gli propone di fare un provino per suonare all’Half Note, importante locale di New York, dove Joe vorrebbe suonare da sempre.

 

Ce la fa. Ottiene il posto come pianista, perché appunto, Joe è bravo, quando suona si estranea e finisce come in una bolla… poi ci arriviamo. Joe esce tutto felice dal locale. Chiama al telefono varie persone per comunicare la notizia e a causa dell’entusiasmo e della distrazione, cade in un tombino e muore.

 

Puff. Finita. Joe non c’è più. È la vita. Funziona così, lo sappiamo. Ci facciamo il culo, sogniamo, facciamo progetti, stiamo per ottenere quello che abbiamo sempre sognato, ed eccoci finire sotto un’auto, ammalarci per un tumore fulminante, morire affogati. Lo sapete. Questo non è uno spoiler, Joe muore dopo pochi minuti dall’inizio del film. E qui inizia il viaggio. Un viaggio quasi lisergico, estraniante, che all’inizio mette pure angoscia, quell’angoscia che si prova al cospetto del pensiero della morte.

 

Docter deve sapere molto bene di cosa si tratta. Deve averci avuto a che fare. Invece la maggior parte della gente s’inventa di tutto pur di non pensarci, ma alla fine o ci si fa i conti o non s’inizia mai a vivere davvero, questa è la parabola.

 

E allora Docter ce la sbatte in faccia la morte, e non lo fa solo con noi adulti, ma anche con i bambini, incurante della frase de Il Corvo che mi ha sempre colpito: “La tua infanzia finisce nell’esatto istante in cui scopri che un giorno morirai”.

 

No, Docter se ne fotte e dice ai bambini “Ehi, voi morirete. Un bel giorno finirete su un nastro trasportatore immerso nell’oscurità che conduce verso un cerchio di luce dove le anime, quando lo attraversano, faranno lo stesso rumore degli insetti quando si schiantano nelle zanzariere elettriche. ZZZ… brasati. Stop. Finito. Kaput”.

 

Joe si ritrova proprio su questo nastro e giustamente è arrabbiato, si rifiuta di morire proprio ora che ha ottenuto quello che aspettava da tutta la vita. Scappa, comincia a correre nel senso opposto al cerchio di luce, che sembra un buco nero ma di luce.

 

E finisce di sotto, nell’oscurità, invischiato in una roba tipo materia oscura, e compie un viaggio in stile Interstellar al confine dell’orizzonte degli eventi, per poi finire al cospetto di una figura stilizzata un po’ picassiana che dice di essere “la congiunzione di tutti i campi quantizzati dell’Universo”, che assume una forma accessibile al cervello umano, che alla fine si fa chiamare “Jerry”, come tutte le altre figure stilizzate. Questo posto è detto “Ante-mondo”, però da qualche tempo si chiama “Io seminario”, per scelte di marketing.

 

E qui ci sono le anime in attesa, luogo in cui sono assegnate le varie personalità, “gli introversi”, “gli egocentrici”, e che vengono anche addestrate da un mentore per prepararsi all’arrivo sulla Terra attraverso il “Terra-portale”. Joe prova a scappare, inventa vari escamotage che non vanno a buon fine. Prova a gettarsi nel “Terra-portale” ma viene ributtato indietro.

 

Si finge un mentore, e così gli viene affidata un’anima ribelle, “22”, che non ne vuole sapere di vivere. Lei sta bene dove sta, non lo vuole un corpo, non la vuole la sofferenza dell’esistenza. Ci hanno provato in tanti a convincerla che ne vale la pena, gente come Gandhi, Maria Antonietta, Copernico, incapaci comunque di far accendere in lei “la scintilla”.

 

Ma Joe non si arrende e la convince a iniziare il percorso per ottenere un corpo.

 

A un certo punto “22” lo porta in un’altra dimensione perché vuole aiutarlo a riavere la sua vita, colpita dalla sua caparbietà a non voler morire, e gli presenta un amico, Spartivento, che è a capo dei “Mistici senza frontiere”, hippy invasati della new age che navigano su un galeone.

 

In realtà loro sono vivi, ma sono lì perché quando si estraniano dalla vita, finiscono in queste “bolle”, tra ciò che è fisico e spirituale, dove ci finiscono anche i musicisti mentre suonano, gli scrittori e i poeti mentre scrivono, gli atleti in trance agonistica. In questa dimensione vagano anche le anime perse, dei “mostri”, che sarebbero vivi, ma è come se non fossero realmente “svegli”, non presenti, non consapevoli, bloccati da ansie e ossessioni, dal troppo lavoro.

 

“Quando una gioia diventa ossessione avviene il distacco dalla vita”, dice Spartivento, e per un periodo è successo anche a lui, a causa del gioco del Tetris.

 

Gli hippy, con i loro riti sciamanici, tra tamburi e meditazione, proveranno ad aiutare Joe a riavere il suo corpo. E arrivati a questo punto, ci rendiamo già conto che tutto questo ha ben poco a che vedere con i bambini, che come possono interpretare questa storia? Come un gioco? Come il paradiso e l’inferno – sempre che ne sappiano già qualcosa?

 

Non so, so solo che da qui inizia il viaggio di “22” e di Joe nella consapevolezza – che non è certo privo di simpatia e divertimento come ogni buon film Disney che si rispetti –, un viaggio che li porterà a capire che forse il senso della vita è la vita, che il senso è nello scopo senza scopo, come ci insegna lo zen.

 

Viviamo perennemente disconnessi, mai presenti, credendo che ci sia sempre qualcosa al di fuori di noi capace di renderci felici, pensando che il lavoro, un figlio, il denaro, un risultato, il successo o chissà cos’altro potrà farci cogliere il perché di questa vita.

 

E se invece fosse tutto qui? Se la vita non fosse altro che fare una passeggiata, guardare il cielo blu o mangiare la pizza? Sarebbe così angosciante? Se la mente è sempre altrove, possiamo dire di aver vissuto davvero? Le nostre ossessioni ci servono per nascondere che cosa? Cos’è che non vogliamo sentire? Il vuoto? Il cerchio di luce in stile zanzariera elettrica che sappiamo che è lì ad aspettarci?

 

La verità è che nessuno vuole trovarsi per la prima volta consapevole soltanto in punto di morte, e capire – quando ormai è troppo tardi – che forse si è sprecata l’esistenza in cerca di non si sa neanche bene cosa, provando a non sentire le emozioni, i pensieri e le sensazioni per paura. Anestetizzati. Anime perdute.

 

“I salici sono verdi e i fiori sono rossi: il vero aspetto”. È tutto qui, come nella poesia del maestro cinese Su Shì del XI-XII secolo.

 

Soul ci insegna che è di fondamentale importanza non smettere mai di ascoltare il nostro bambino interiore, mantenere la mente del principiante, quella continua curiosità unita all’umiltà di sapere di non sapere, anche quando crediamo di aver visto, letto e vissuto abbastanza. Il segreto è non smettere mai di guardare a fondo, di stupirsi, di essere entusiasti.

 

Trovare il coraggio di fermarsi, risvegliarsi e assaporare ogni momento.

 

Ri-trovare il coraggio di sentire.

 

“Una condizione di completa semplicità (Che costa non meno di ogni cosa)”,come scriveva Thomas S. Eliot.

 

Insomma, imparare a fare la cosa più difficile del mondo: vivere.

 

 

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