Le Ninfee di Monet, spazio per la meditazione

Sono andata a Parigi da sola due giorni per vedere la mostra di Mark Rothko alla Fondazione Louis Vuitton. Non una mostra qualsiasi, una personale con più di cento opere, che rimarrà nella storia.

Dalle origini figurative fino alla dissoluzione, prima nel chiarore, poi nell’oscurità.

Dalla nascita alla scelta di togliersi la vita all’apice del successo.

Perché quando consacri la tua esistenza alla ricerca della luce, arriva il momento in cui, forse, non puoi più aspettare di diventare quella luce.

La mattina dopo, prima di riprendere l’aereo, sono anche andata al Museo dell’Orangerie per vedere le Ninfee di Monet.

Ero già stata a Parigi, in gita, all’età di quindici anni. Quella volta ci portarono a vedere il Louvre, la Tour Eiffel, il Pompidou, Montmartre, Notre-Dame, Pigalle (chissà perché, ma già che c’eravamo comprammo del popper). Poi, un pomeriggio, trascinai tutta la classe al cimitero di Père-Lachaise. Dovevo andare a trovare Jim Morrison. La prof, che per fortuna mi adorava e adorava Jim, accettò volentieri. Ho ancora le foto di me, triste e sconsolata, che lascio una rosa rossa sulla tomba di quel ragazzo che non si sa manco se stia lì per davvero. Non aveva importanza, per me era lì. Non avrei mai immaginato di poter stare così vicina a Jim Morrison. Six feet under.

Insomma, durante quella gita di una settimana niente Ninfee. Sono andata a prendermele da sola, venticinque anni dopo. E ora so che doveva andare così, non poteva essere altrimenti.

Una volta arrivata al Museo dell’Orangerie sono andata diretta nella sala delle Ninfee, che in realtà sono ben due sale. Claude Monet le donò allo Stato francese come simbolo di pace dopo la fine della prima Guerra Mondiale, nel 1918, e furono disposte al Museo dell’Orangerie nel 1927.

Inutile dire che c’era una marea di gente sotto quel tetto di vetro, in quelle stanze bianche e ovali, soprattutto ragazzine bionde, more, occidentali e orientali, che passeggiavano avanti e indietro dinanzi a quei quadri per farsi immortalare per Instagram o TikTok. Non le ho giudicate ma non le ho nemmeno rispettate. Non ho certo aspettato che finissero di fare i loro video per poter ammirare quei capolavori. Avevo pure un cazzo di volo di lì a poco e non potevo permettermi di perdere tempo: io volevo passarci almeno due ore all’interno di quelle Ninfee, non in quelle stanze, ma proprio dentro alle Ninfee.

Così, dopo essere entrata nell’inquadratura di varie ragazze senza minimamente essere insultata – e ci mancherebbe – e dopo essermi ammirata uno per uno tutti quei quadri immensi, mi sono soffermata su un capolavoro in particolare, quello presente nella seconda stanza. Era il più oscuro, con solo un paio di ninfee ben nitide e colorate in mezzo alla tela: Reflets d’arbres, dipinto tra il 1914 e il 1926, due tele a olio, per un totale di due metri d’altezza e otto metri e mezzo di lunghezza.

Dalla giusta distanza, ho iniziato ad ammirare quel quadro come avevo fatto fino a quel momento con i quadri di Rothko, e cioè mettendomi a fissare un punto sulla tela, lasciandomi avvolgere dalla luce. Perché è questo che accade con i quadri di Rothko: tu li guardi, e la luce inizia a uscire dai bordi, fino ad abbracciarti. Non esiste più distinzione tra i colori, non ci sono più confini, solo luce. Mi accadde la stessa cosa nella cappella laica di Houston, in Texas, completamente dedicata a Mark Rothko, fondata dai collezionisti John e Dominique de Menil, che racchiude quattordici dipinti neri che hanno la capacità di porre l’osservatore al cospetto della propria coscienza universale.

Ho iniziato a guardare quel quadro di Monet allo stesso modo e, improvvisamente, dai miei occhi sono sgorgate delle lacrime. Quasi singhiozzavo, sussultavo, sommessa, per non disturbare, per non attirare l’attenzione. Per carità! Non riuscivo più a fermarmi.

Avrei voluto essere sola in quella stanza.

Ed ecco la magia.

A un certo punto mi sono accucciata a terra. Le gambe non mi reggevano. Ho continuato ad ammirare quel quadro, senza distogliere mai lo sguardo, e anche lui mi ha avvolto, mi ha illuminato. Non c’era più nient’altro. E le persone devono essersene accorte perché, da quel momento in poi, nessuno ha più osato passarmi davanti o avvicinarsi a quel quadro, per un tempo indefinibile, lungo, dilatato.

Si è creato come uno scudo, uno schermo; due ali si sono aperte dalle mie spalle e sono arrivate fino al dipinto. E le persone passavano, si fermavano, ma dietro a quello scudo, nonostante proprio ai due lati del quadro ci fossero gli ingressi all’altra sala.

Nessuno ha più parlato. Si era formata una sorta di aura di sacralità. Dietro di me percepivo le persone fermarsi in ammirazione più a lungo. C’era qualcosa che andava guardato in quel modo.

Ero dentro. Ero quella ninfea solitaria. Lo eravamo tutti.

Uscendo, ho visto una frase impressa sulla parete bianca all’ingresso della prima sala che non avevo notato entrando:

“La sala delle Ninfee è stata disegnata da Claude Monet come uno spazio per la meditazione. Per rispettare questo suo desiderio, vi chiediamo di guardare questo eccezionale lavoro in silenzio”.

 

 

 

Articolo tratto dalla rivista culturale Pangea.news

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