Meditare di fronte ai quadri di Hermann Nitsch

Hermann Nitsch è morto il 18 aprile 2022, il giorno dell’inaugurazione a Venezia della sua mostra 20th Painting Action presso Oficine 800, per la prima volta in Italia, dalla collezione privata di Helmut Essl. Non una mostra ma un’azione, presentata per la Wiener Secession del 1987.

Hermann Nitsch è morto, eppure ci sono cose che vivono per sempre pur essendo morte. Nitsch è entrato a far parte degli eterni. Sono riuscita a vedere la sua mostra pochi giorni prima della chiusura. Avevo visto qualche quadro a New York, a Londra, ma mai una cosa simile.

All’ingresso mi ha accolto un altare – con il classico calice al centro – poggiato su tele cosparse di pittura e sangue vero. Un’onda di rosso e marrone. Perché il sangue, quando secca, diventa scuro.

Nitsch era uno che squartava animali, che faceva rivivere i riti sacrificali, che tirava secchiate di sangue sulle tele e sulla gente. Ispirato da Nietzsche, Schopenhauer, de Sade. Lo stesso Nitsch ha dichiarato:

Volevo mostrare come i riversamenti, gli spruzzi, la sbavatura e gli schizzi di liquido di colore rosso possono evocare un’eccitazione intensa nello spettatore, invitando a sensazioni molto forti”.

La seconda sala mi accoglie con un altissimo muro da cui cola sangue, sangue, sangue. E sotto un altro altare, tuniche in croce usate dagli esecutori, fiori come fossimo a un funerale. E tutto intorno sangue, sangue, sangue dappertutto. Procedo verso destra, tra quelle mura rosse. Sento un richiamo. Sono circondata. Mi siedo in mezzo alla sala. Sono sola. Completamente sola. Le tele sono di fronte e intorno a me. Il mondo là fuori non esiste più. È un’orgia di emozioni. È un trauma che ti occorre. Un’estasi. La mente si acquieta senza sforzo.

Poi arrivano immagini, intuizioni, sensazioni. Arrivano Charles Manson e le immagini che vidi al Museum of Death a New Orleans dell’omicidio di Sharon Tate con la sua pancia lacerata e le parole “Death to pigs” che i suoi adepti scrivevano sui muri con il sangue; arrivano gli infanticidi, gli omicidi, i suicidi, le guerre, la violenza che ci attanaglia e che è all’ordine del giorno, perché è la nostra natura a essere fatta così. Siamo vivi perché abbiamo saputo uccidere. Siamo qui solo perché vince sempre il più forte. Senti pulsare la violenza e quasi ti spaventi di te stesso. C’è un assassino dentro ognuno di noi e nessuno lo sa finché non viene messo alle strette. Giudichiamo e tremiamo per la paura di non saper controllare i nostri istinti.  Nietzsche diceva: “Non esiste festa senza crudeltà; la crudeltà è una delle più antiche gioie della festa dell’umanità”.

E allora vedo. Vedo che in quelle tele c’è l’origine di tutto. Il prima della nascita del pensiero, il prima della nascita del linguaggio. Veniamo forse dal nulla, nasciamo nel sangue, e ce ne andremo nel sangue del nulla.

“Mi faccio carico di tutto ciò che appare negativo, disgustoso, perverso e osceno, della lussuria e dell’isterismo sacrificale, per risparmiare a voi di contaminarvi e macchiarvi della vergogna causata dalla discesa nelle profondità estreme”.

Sono lì e non vorrei essere da nessun’altra parte. Sono a casa perché mi riconosco in quella carne che ha rilasciato quel sangue. Quel sangue è sangue nostro. È il sangue di tutti.

Lì c’è l’umanità che gorgoglia come un lavandino otturato, sempre più incapace di accettare la morte. Guardare quel sangue è come guardarsi allo specchio. La natura continua a squartarsi proprio perché è nella sua natura. L’animale che è in noi si risveglia, come un leone al cospetto della preda. Anche noi arriviamo dalle savane. E senti pulsare tutto, e senti che tutto è così normale e come dovrebbe essere. Avvolto dal silenzio capisci che imparare a domare la sete di sangue è tutto. È questo che ci ha fatto evolvere e che allo stesso tempo è stata la nostra rovina. In questo consiste il sublime: la nostra piccolezza e nullità al cospetto della magnificenza.

“A rigor di termini, non esiste una cosa come la morte. La morte ci trasforma. La materia non solo si decompone dopo la morte, ma continua a trasformarsi.  Credo in un incessante verificarsi”

Le parole di Nitsch.

E allora mi è venuto in mente quando mi sono seduta nella cappella laica di Mark Rothko a Houston, in Texas. Quando scoppiai a piangere di fronte a quelle tele scure apparentemente prive di vita e immagini, eppure vibranti quanto ogni atomo che ci compone. Perché dinanzi a certe opere sembra quasi di comprendere le parole di Meister Eckhart, l’eretico: bisogna cominciare da noi stessi, abbandonare noi stessi per abbandonare tutte le cose. Non accontentarsi di abbandonarsi a un Dio pensato, perché quando il pensiero scompare, anche Dio scompare. Bisogna possedere un Dio secondo la Sua essenza. Irrompere oltre le cose.

“Prego Dio che mi liberi da Dio, perché il mio essere essenziale è al di sopra di Dio, se prendiamo Dio come inizio delle creature […]. Perciò io sono non nato e, secondo il modo del mio non esser nato, non posso mai morire”.

Perché la libertà avviene attraverso il distacco, l’essere totalmente spogli e liberi, come l’anima è spoglia e libera, come Dio è in se stesso spoglio e libero. Come scrive Ueda Shizuteru in Zen e filosofia:

“Il distacco supremo, questo interessa ad Eckhart, è l’esser-libero-da-Dio, vivere senza Dio, poiché in questo esser «senza Dio» Dio stesso si fa presente così com’è in se stesso, un nulla. Non che Dio sia meramente nulla, bensì Dio è in se stesso un nulla. Dio è, cioè, in quanto nulla. […] Quel che interessa Eckhart è la libertà radicale, e solo quella ottenuta grazie al distacco supremo, in virtù del quale l’anima è libera non solo dal creato, ma anche da Dio, in quanto oggetto di conoscenza: ossia, in fondo, libera alla propria «proprietà», inclusa quella di Dio in quanto Dio «mio»; libera, ossia morta radicalmente a se stessa”.

Dio è un nulla in quanto innominabile, indefinibile, indicibile. Di nuovo Eckhart: “L’uomo giusto non serve né Dio né le creature, perché è libero”.

“Proprio come Dio opera senza perché e non conosce alcun perché […] il giusto agisce senza perché. […] egli è la stessa vita. Se qualcuno interrogasse per mille anni la vita chiedendole perché vive, ed essa potesse rispondere, non direbbe altro che questo: io vivo perché vivo. Per il fatto che la vita vive del suo fondo proprio e sgorga dal suo proprio essere, per questo essa vive senza perché, proprio per il fatto che vive per se stessa”.

L’irrompere libero oltre il creato e il non creato. L’essere veramente Uno.

“Dio è morto perché io muoia a tutte le cose create”.

Per imparare a ricevere si deve essere vuoti. Bisogna andare oltre, cogliere il deserto che abbiamo dentro e abbandonare l’io. Ritornare alla causa prima, nudi esseri, liberi da Dio e da tutte le cose.

E allora non servono immagini, forme, nomi, linguaggio, parole, come nelle opere di Rothko, e, appunto, di Nitsch. Solo silenzio, sopra ogni cosa.

E anche Nitsch – come spesso accade ai grandi – è stato libero ma anche perseguitato. Lo hanno odiato, amato, denunciato, idolatrato, accusato, minacciato. A Palermo, nel 2015, fece tappa la sua Das Orgien Mystherien, con animali morti, sventrati, viscere sparse ovunque e persone crocifisse che venivano imbrattate di sangue. E gli animalisti provarono a impedire che si tenesse la mostra, perché ci si prova dall’inizio dei tempi a fermare l’arte, a fermare gli artisti, a fermare Nitsch, e così sarà sempre, anche se Nitsch ha pure affermato di usare corpi di animali già morti. In Messico ci riuscirono pure a fermarlo, con una petizione online. Ma l’arte deve essere libera, deve rimanere tale per davvero.

Oggi, dove tutto è omologato, soprattutto il pensiero, Nitsch emerge dal buio culturale dei nostri tempi e ci ricorda chi siamo veramente e chi continueremo a essere. Oggi Nitsch è un intoccabile, un santo. Lui è sempre rimasto fedele a se stesso e coerente, se ne è sempre fregato dei giudizi altrui ed è entrato nell’olimpo dei più grandi artisti del Novecento. Ma oggi, mi chiedo, verrebbe concesso di affermarsi a un artista così irriverente? Possibile che pochissimi nei propri libri, nelle proprie canzoni, nelle proprie opere parlino di vita e morte, di Dio o di nulla? Dove sono finiti i temi alti, i temi che ci riguardano davvero tutti? Dove sono gli Hermann Nitsch, i Mark Rothko, gli Anselm Kiefer di casa nostra? Che fine ha fatto l’arte? E la letteratura?

Il critico Anthony Julius nel suo libro Trasgressioni. I colpi proibiti dell’arte, parla dei timori che Flaubert confessa in una lettera a Louise Colet del 1852. Timori che suonano così attuali. Flaubert si rende conto che i mugugni per i fastidi e l’irritazione che lo assalgono sono inutili, e che comprendono le leggi dell’esistenza: “Dovremmo essere religiosi, nel senso di essere rassegnati”. Flaubert scrive, si aggrappa a quello, e la mancanza di incoraggiamento da parte degli altri e il disgusto che prova per il mondo esterno, lo obbligano a cercare un posto dove vivere nella sua interiorità. Falubert è un mistico estetico, dice Julius:

“quest’incombente rinascita del misticismo potrebbe anche condurre a credere all’approssimarsi della fine del mondo o all’arrivo di un nuovo Messia. Tali aspettative non hanno naturalmente alcun fondamento teologico, così la gente andrà a caccia di idoli di qualsiasi tipo: il sesso, le antiche religioni, l’arte”.

Ma Flaubert si lamenta dicendo che quando tutto questo accadrà sarà troppo tardi, la sua carriera sarà ormai terminata, e spiega che questo futuro imminente sfugge ai socialisti, concentrati sul loro materialismo, e ai repubblicani, intenti a programmare la riorganizzazione del mondo intero, e che i socialisti negano la realtà del dolore, e disprezzano la maggior parte della poesia moderna, non capendo che non riusciranno a comprimere e ad arrestare il sangue di Cristo che scorre nelle nostre vene. I repubblicani, dall’altra, non s’accorgono che le regole, di qualunque tipo siano, si stanno annullando, che le barriere stanno crollando e che la terra si sta livellando. Non è possibile trovare un nuovo ordine del mondo: “Quel momento iniziale di riforma, in cui l’ordine prestabilito si scioglie, conduce a una dissoluzione irreversibile. Mentre i socialisti non colgono la dimensione spirituale della vita, i repubblicani si sbagliano quando credono di poterla razionalizzare”.

Flaubert scrive a Louise, scrive a se stesso, sembra scrivere a noi, proprio oggi. Parla della confusione che ci attanaglia e ci circonda, del dolore e dello sconvolgimento delle regole che caratterizzano l’arte. Dove ci condurrà tutto questo? Forse alla libertà:

“L’arte, che come sempre indica il cammino, ha indubbiamente preso questa direzione, ha voltato le spalle alle regole”.

La sensazione è quella di sentirsi persi, di non avere i mezzi per recuperare il contegno. Dunque, si chiedeva già Flaubert, quale poetica e quale teoria letteraria prevalgono ancora? Nessuna. Il linguaggio artistico – e il linguaggio in generale che usiamo oggi, nel ventunesimo secolo – è sempre più rigoroso, mentre le idee sono irrimediabilmente confuse e informi:

“La bellezza potrebbe diventare un sentimento del quale l’uomo non sa più cosa fare. La cosa migliore che possiamo fare è esprimere il nostro virtuosismo con opere autocelebrative. L’innocenza, il semplice racconto di una storia o la rappresentazione della natura, è un’illusione”.

Alla fine, forse, si salverà soltanto chi rimarrà se stesso, chi continuerà a dire quello che pensa a costo della vita. Saremo sazi solo quando impareremo ad accettare anche l’oscenità del mondo e poi a lasciar andare.

 

 

*Per le immagini: Hermann Nitsch, 20th painting action, Venezia 2022. Installation view. Image courtesy of Marcin Gierat – Zuecca Projects

 

 

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