Domani mattina, l’ennesimo Pinco Pallo occidentale, potrebbe svegliarsi e diventare grande maestro di vita e insegnare “Tantra”, senza minimamente sapere che diamine sia, e la verità è che non importa a nessuno, perché la maggior parte della gente, oggi, sta talmente male da non volere informazioni, da non voler sapere che cosa sta facendo, ha solo bisogno di una rapidissima e poco costosa soluzione per il proprio problema. D’altronde, come glielo spieghi a uno che scopre la meditazione da un video sui social che ciò che sta vedendo in realtà riguarderebbe l’estinzione?
È lo specchio dei nostri tempi.
La mia critica nasce da una forma di sofferenza, ma ancor più da una forma di amore, amore nei confronti della Filosofia, con la maiuscola, proprio come quella che consolò Boezio, ingiustamente rinchiuso in prigione, fino al giorno della sua decapitazione.
Il mio primo amore è la filosofia occidentale – decisi di studiarla all’Università – e il primo amore, si sa, non si scorda mai. Ma è anche vero che è possibile innamorarsi di nuovo e incontrare l’amore maturo, che a volte ti porta addirittura a scegliere di sposarti. Ecco, io mi sono talmente innamorata della filosofia orientale da decidere, in un certo senso, di sposarla.
Purtroppo, però, non ho la capacità di tradurre e studiare il sanscrito, così mi affido sempre ai più grandi studiosi e alla lettura dei loro testi, da Giuseppe Tucci, vera e propria divinità anche per gli stessi accademici, Raniero Gnoli, Raffaele Torella, e pochi altri. Perché sono in pochi a studiare questa roba. Perché la filosofia orientale è talmente complicata, enorme, alta, profonda, da non fare proseliti come i “corsi di yoga per aprire i chakra”.
E un giorno mi arriva a casa un libro di una studiosa di Roma, laureata in Lettere con tesi in Storia delle Religioni proprio alla ‘Sapienza’, dove sono passati tutti gli accademici citati qui sopra. L’autrice è Ilaria Giovinazzo. Attingendo da varie fonti, ha fatto un lavoro da pazzi o da innamorati: tradurre per la prima volta in Italia cento versetti della poetessa Lalla, dal titolo Lalla. Pura luce. Canti mistici del tantrismo kashmiro. Un libro che non troverete primo in classifica su Amazon, nonostante si tratti di poesie illuminanti.
“Né parola né pensiero, né trascendente o non trascendente.
Nessun voto di silenzio, nessuna attitudine mistica,
nessun mantra ti porterà lì.
Non sono lì neppure Shiva e Shakti.
Quel che resta, questa è la dottrina”.
Ed eccomi innamorata. Di nuovo.
Il filosofo Patañjali, vissuto (pare) nel II secolo a.C., non si può considerare l’unico depositario dello yoga. Per esempio, dopo di lui arrivarono anche gli shivaiti kashmiri, tra cui Abhinavagupta, il Meister Eckhart del tantrismo, il quale reinterpretò lo yoga “come l’azione che rimuove le tracce latenti degli errori di percezione derivanti dalle impurità (mala) che la Coscienza ha contratto nel movimento di emanazione. Il modello alla base di questo yoga è lo stesso degli Yogasūtra di Patañjali ma se ne differenzia poiché non prevede le prime due membra, yama (le proibizioni) e niyima (le discipline)”, come spiegato da Giovinazzo.
Scrive Abhinavagupta nel Tantrāloka:
“Le cinque proibizioni – non uccidere, non mentire, non rubare, non avere rapporti sessuali, non essere avaro –, le cinque discipline, quali l’ascesi, etc., le varie posizioni del corpo e i diversi tipi di controllo della respirazione non sono direttamente di utilità alcuna nei riguardi della coscienza, ma semplici manifestazioni esteriori”.
Stiamo parlando di Tantra, da cui deriva anche lo haṭha yoga. Non del Tantra che troviamo qui da noi, dato che non esiste quasi nemmeno più in India. Soltanto alcuni sparuti sādhu induisti lo praticano ancora. Il Tantra non vuol dire scopare come forsennati, non vuol dire farsi fare i “massaggi tantrici”, non consiste in quel che faceva Sting o roba simile. Anzi, se leggete o sentite “Tantra”, oggi, in Occidente, state attenti che non vi molestino sessualmente.
Il Tantra esiste ancora in Tibet. Il vajrayāna, il terzo veicolo del buddhismo (gli altri due sono hīnayāna, di cui è rimasta solo la corrente theravāda, e il mahāyāna, da cui deriva anche il vajrayāna), è detto buddhismo tantrico.
Tantra significa “trama”, “spola”, sta per “dottrina”, “testi”. Lo shivaismo nacque in Kashmir tra il IX e il X secolo d.C.. Fu una corrente filosofica che entrò in contrasto con l’induismo ortodosso perché iniziò a non considerare più l’astinenza e l’ascetismo come l’unica Via per comprendere che tutto è Coscienza, che noi stessi siamo Coscienza Assoluta e che non dovremmo fare altro che diventare ciò che siamo già, che quando ridiamo, è Lui che ride, che quando starnutiamo, è Lui a farlo: “Tu sei Me e Io sono Te”.
Come scrisse il massimo esperto di tantrismo André Padoux, nel suo libro Tantra, le pratiche trasgressive, come anche l’uso dell’alcol o della carne, servivano per superare la dicotomia tra puro e impuro. Il sesso (che non aveva un ruolo eccessivo) era usato come supporto meditativo e forza da domare per trascendere la coscienza individuale e raggiungere quella divina e suprema, la liberazione, e l’ottenimento di poteri sovrannaturali.
Scrive Padoux:
“Per il praticante di sesso maschile, vi è anche una ricerca della potenza o di una vitalità rinforzata che si attinge dalla donna, poiché la forza, l’energia, la shakti, è femminile, e dunque è la parte del femminile del rito che la detiene – molte pratiche lo dimostrano. Si noti che questa visione della donna non è solo tantrica, ma indiana in generale: la donna detiene la potenza e l’uomo può attingere da lei, ma questi rischia sempre di perderla rilasciando il proprio seme”.
Il sesso era visto come una partecipazione al gioco dell’energia divina, non come ricerca del piacere. Qui sta il grande fraintendimento occidentale:
“Evitare qualsiasi perdita seminale significa serbare la propria forza: antica nozione, perenne ossessione indiana. Bisogna servirsi della donna, ma per trarne forza, evitando accuratamente di perdere quella che già si possiede. Lo yogin raggiungerà l’intensità dell’orgasmo e, a quel punto, si sentirà unito alla divinità senza perdere nulla della propria sostanza (egli potrà anche trarre forza dalle secrezioni della propria partner aspirandole)”.
Scrive Giovinazzo parlando della poetessa Lalla, che (si pensa) visse tra il 1350 e il 1400 d.C.:
“Sempre dalla visione tantrica assorbe il concetto che il mondo, come creazione dell’Essere Supremo, non è da negare ma da assaporare, senza sviluppare attaccamento verso di esso. Usare quindi i sensi come nostri servitori ma non farci trattare da loro come se fossero nostri padroni”.
Lalla fu influenzata anche dal misticismo dei sufi, che arrivarono nelle valli del Kashmir durante l’invasione mongola dell’Iran. Fu proprio questo incontro a dar vita a quello che Ilaria definisce “tra le più alte esperienze spirituali dell’umanità”.
Lalla fu una mistica, un’illuminata; cacciata da casa dal marito, si ritrovò a vagare nuda nella giungla; e poi, sempre nuda ma per scelta, continuò a predicare. Una donna che abbracciò la concezione che l’Assoluto non va raggiunto da qualche parte, che tutto è emanazione dell’Assoluto, che noi siamo Assoluto, e che il nostro stesso corpo è divino, e che quindi va curato e ascoltato, e non maltrattato con digiuni o mortificazioni. Le emozioni vanno semplicemente domate:
Non torturare il corpo con pratiche ascetiche per compiacere gli dei.
Aiutalo piuttosto, quando inciampa e cade.
All’inferno i tuoi voti e le tue preghiere,
aiuta gli altri nella vita, non esiste adorazione più perfetta.
E ancora:
Soddisfare i tuoi appetiti non ti porterà da nessuna parte
ma negarli ti porterà all’orgoglio.
Non essere schiavo degli opposti, cerca l’equilibrio
e ti si apriranno tutte le porte.
Nel Tantra è Śiva a essere la divinità suprema, principio ultimo della realtà, il Tutto. Scrive Giovinazzo: “Secondo lo Shivaismo kashmiro, la coscienza (cit o anche saṃvit) non è una funzione del corpo, ma qualcosa di immateriale (tattva) che pervade il corpo. Essa è presente in ogni essere vivente e nella materia stessa, dove possiamo immaginarla come “coscienza sopita”. Quindi tutto è coscienza, ed essa pervade ogni cosa esistente. O, per dirla come i sufi “tutto è Dio”.
Lalla, la kashmira, che però potrebbe essere anche esponente perfetta della via negativa o apofatica del nostro misticismo cristiano. In stretto contatto con quel nulla, con quella nube di non conoscenza, con quella luce che tutto avvolge e che ha sentore di casa:
Mille volte ho chiesto al mio Maestro
di dare un nome al Nulla.
Poi ho rinunciato.
Che nome si può dare alla fonte di tutti i nomi?
E ancora:
Quando i libri sacri scompariranno, rimarranno solo i canti.
Quando i canti scompariranno, rimarrà solo la mente.
Quando la mente scomparirà, non rimarrà nulla
e il Vuoto si fonderà col Vuoto.
Lalla, una donna nata in Oriente, che però potrebbe essere benissimo (per chi ci crede) la reincarnazione della mistica francese Margherita Porete, messa al rogo a Parigi per non aver mai rinnegato il suo “eretico” capolavoro Lo specchio delle anime semplici. Un testo che predicava proprio il non-dualismo – come lo shivaismo – e la trasfigurazione nella luce, nell’Uno. Dio, infatti, anche per Margherita era “soltanto colui di cui non si può dire parola”.
Riapro quel libro, cerco un passaggio da citare, e addirittura ritrovo delle frasi che avevo sottolineato a matita, con a fianco scritto: “shivaismo”. E sorrido, sentitamente:
“Amore – Questa figlia di Sion non desidera né messe né sermoni, né digiuni né orazioni.
Ragione – E perché, Amore? Dice Ragione. È il nutrimento delle anime Sante.
Amore – È vero, dice Amore, per quelle che mendicano; ma questa non mendica niente, perché non ha bisogno di desiderare cosa che sia al di fuori di lei. Ora cercate di capire, Ragione, dice Amore. Perché quell’anima dovrebbe desiderare queste cose appena dette, dal momento che Dio è altrettanto bene dovunque senza di esse che con esse? Quest’Anima non ha pensieri né parole né opere se non riguardanti l’uso della grazia della divina Trinità. Quest’anima non prova disagio né per peccati che abbia mai compiuto, né per sofferenza che Dio abbia mai sofferto per lei, né per i peccati e i difetti nei quali si trovi il suo prossimo”.
Perché in fondo, come ci ricorda Giovinazzo con le parole del mistico sufi Junayd:
“Il colore dell’acqua è il colore del suo recipiente, intendendo che tutte le religioni sono eguali; differiscono per ambiente, nome, ritualistica, ma non possono differire nella sostanza”.
L’ultima poesia di Lalla scelta da Giovinazzo per chiudere il libro, richiama la conclusione di quel meraviglioso testo che è Il pellegrino cherubico di Angelus Silesius.
Lalla ha scritto.
Maestro, lascia queste foglie di palma e cortecce di betulla
ai pappagalli che recitano il nome di Dio in una gabbia.
Buona fortuna, dico, a chi pensa di conoscere le Scritture.
La più grande scrittura è quella che risuona nella mia testa.
Silesius ha scritto:
Amico, basta ormai. Se vuoi leggere ancora,
Va’, e diventa tu stesso la Scrittura e l’Essenza.
Forse davvero Tutto è Uno. Tutto è Pura luce. Molti ne hanno fatto esperienza.
Una mensa regale, un baldacchino, una carrozza,
un trono, spettacoli e serate a teatro, un letto soffice.
Cosa di tutto questo durerà?
Cosa cancellerà la paura della morte?
Ce lo dicono da secoli. Ma sembriamo non voler ascoltare. Forse dovremmo avere il coraggio di questi mistici. Molti di loro finirono in prigione, vennero cacciati, decapitati, bruciati, isolati, minacciati. Diedero la vita per le loro idee. E invece noi, oggi, siamo incapaci di trovare anche solo un valido motivo per gioire, figuriamoci per morire. Inadatti a esistere e inadeguati a perire.
E allora facciamoci illuminare ancora una volta da Lalla e dai grandi pensatori come lei. Gente che ha saputo morire, ma che soprattutto ha saputo vivere, sentire e vedere senza timore:
Il mio maestro mi ha dato solo un precetto:
dimentica l’esterno e guarda dentro te stessa.
Così io, Lalla, ho preso a cuore questo precetto
e, nuda, ho iniziato a ballare.
Articolo tratto dalla rivista culturale Pangea.news