Yoga e kleśa. Cosa ci insegna lo yoga sul come rimuovere la sofferenza

 

“La mente è l’artefice principale della nostra felicità e della nostra sofferenza.

E questa è una buona notizia perché possiamo trasformarla.”

 

 

Un giorno ho riconosciuto in me l’emozione della rabbia.

 

Noi non siamo la nostra rabbia, è bene capirlo.

 

Ho riconosciuto la rabbia, l’ho sentita crescere, e mi sono accorta che stava aumentando da molto tempo.

 

In preda a questa rabbia scrissi un articolo che è diventato virale nel mondo dello yoga, che la rivista culturare Pangea.news

 

Articolo rilanciato anche da Linkiesta.

 

Già dal titolo si può capire qual era l’intento.

 

Dopo questo articolo ho deciso di scrivere un saggio-inchiesta su questo tema che spero vedrà la luce a breve.

 

Questo per dirvi cosa? Per dirvi che Sergio Busi, l’autore di “Yoga e kleśa. Le afflizioni mentali e il metodo yoga che rimuove la sofferenza. Negli Yogasutra di Patañjali e nella filosofia classica indiana“, dopo aver letto quel mio “famoso” articolo, ha deciso di scrivermi per dirmi che il pezzo gli era piacuto molto, mi ha fatto vari complimenti, e poi mi ha proposto di leggere il suo libro, scritto insieme alla moglie Cristina Biogli.

 

Nel mio articolo me la prendo con il mondo dello yoga perché da troppo tempo questa disciplina sembra essere diventata niente più che ginnastica e inoltre basta pagare per diventare insegnanti (problema che riguarda anche il mondo della mindfulness, sia chiaro).

 

È giusto avvicinarsi allo yoga per i più svariati motivi, ma bisogna anche stare attenti, perché il rischio è di finire a farsi male fisicamente e mentalmente.

 

 

Il sonno della ragione genera mostri

 

Lo yoga è una pratica meditativa a tutti gli effetti, ed è una via spirituale, un mezzo per riconnettersi con l’Assoluto e liberarsi dal ciclo delle reincarnazioni, anche se oggi in Occidente difficilmente lo si pratica con queste intenzioni.

 

Ho iniziato a praticare e insegnare mindfulness -allontanandomi volutamente dal mondo dello yoga- proprio perché ho un approccio laico e occidentale, e lo yoga, se lo si prende seriamente, non lo si può spogliare di tutte le sue componenti spirituali e poi continuare a chiamarlo yoga.

 

La mindfulness ha preso ispirazione da pratiche buddhiste e non solo, ma non si chiama “meditazione vipassanā”, sarebbe ridicolo se non addirittura truffaldino, perché la pratica di consapevolezza ha preso ispirazione dalla pratiche dell’Oriente ma poi si tratta di altro, il percorso è diverso, l’intenzione è diversa.

 

Lo yoga non ha mai cambiato nome, anche se la maggior parte delle persone che dicono di praticare yoga oggi in realtà non praticano soltanto “yoga”, ma quello che potremmo chiamare Modern Yoga o Mindful Yoga, e cioè una versione laica e occidentalizzata dello yoga di un tempo.

 

Questa pratica è complessa. Nel mio articolo scrivevo: Il pensiero dell’India, e il suo sistema religioso e filosofico, è complicatissimo. Non ci si può considerare profondi conoscitori dello yoga quando neanche un ricercatore che passa tutta la vita a studiare la materia si definirà mai tale. Figuriamoci senza laurea e pagando! Invece in giro sembrano esserci parecchi guru, finti santoni e maestri che non hanno neanche mai letto un testo sacro e che millantano saggezza.”

 

Sì, ero arrabbiata. Dopo anni nel mondo dello yoga ero stanca di sentire pronunciare termini sbagliati, usati a caso, venduti come miracolosi, curativi, magici.

 

Mi sono accorta dell’ignoranza suprema che regnava nel mondo dello yoga proprio quando ho iniziato a leggere i testi antichi e saggi di rinomati studiosi come Raniero Gnoli, Raffaele Torella, Mark Singleton e tanti altri.

 

Poi mi sono imbattuta in “Yoga e kleśa” di Busi e Biogli (il primo laureato in filosofia teoretica e che ha vissuto sedici anni in India e Nepal, e la seconda è laureata in filosofia morale), e ho capito che per fortuna ci sono persone preparate, che con i loro libri ci fanno capire quanto intricata e complessa e affascinante sia la disciplina dello yoga.

 

I due autori hanno scelto di parlare di questa pratica partendo dai kleśa, le afflizioni mentali, compiendo un viaggio nel mondo antico dello yoga, dalla sua filosofia, dalle origini, dalla definizione della parola yoga, citando e spiegando Patañjali, autore degli Yoga Sutra.

 

È un libro complesso, che usa molti termini sanscriti, con parti tradotte dai testi antichi.

 

I capitoli sono suddivisi nei cinque  kleśa:

 

“Avidyā”, l’ignoranza, l’incapacità di vedere come sono realmente le cose.

 

“Asmitā”, senso dell’io, ego, nel senso di falsa identificazione di sé.

 

“Rāga”, la bramosia, l’attaccamento, il desiderio.

 

“Dveṣa”, l’avversione, la repulsione.

 

“Abhinivesa”, l’attaccamento (alla vita, la paura della morte.)

 

SENZA PAURA

 

Quest’ultimo capitolo in particolare per me è stato davvero utile e illuminante, appassionata come sono di quello che potrebbe esserci o non esseerci dopo la morte.

 

Perché in fondo, se ci pensiamo, tutto si riduce a questo: cercare di affrontare la paura della morte, cercare di capire qual è la nostra visione al riguardo, da credenti, da atei, da persone spirituali, vale per tutti.

 

Per “morire bene si deve vivere bene”, “la nostra più grande paura è che quando moriremo diventeremo nulla”. Troviamo questi e altri profondi concetti in questo capitolo.

 

Lo yoga, la meditazione, tutte le pratiche che arrivano dall’Oriente, ci insegnano a non avere paura della morte, a non avere un forsennato attaccamento alla vita.

 

Insegnano a non avere paura di qualcosa che in fondo è naturale e che siamo noi ad aver chiamato “morte”, ad aver dato un nome alle cose.

 

L’illusione arriva proprio da questo, dal credere di avere il controllo, di sapere tutto, di poter descrivere il mondo, di poter dare nomi ed etichette per aver chiari i concetti, quando invece l’unica cosa da fare sarebbe quella di vivere con consapevolezza, con presenza mentale, rinunciando -quando si parla di certi concetti- a spiegare il tutto con la parola, il linguaggio, che non sono altro che un’altra illusione creata da noi essere umani.

 

Anche la morte potrebbe essere soltanto un concetto, come disse il Buddha, e come scrive Thích Nhất Hạnh in “Il segreto della pace”: “non c’è nascita, non c’è morte, non c’è venire, non c’è andare; non c’è lo stesso, non c’è altro e diverso; non c’è un sé permanente, non c’è annientamento, siamo noi a credere che ci siano.”

 

Se una risposta c’è, forse la si può trovare nell’intuizione che deriva dal silenzio, dalla calma mentale, dal vivere il presente, l’unico fenomeno di cui ci è possibile fare esperienza. Esserci.

 

La vita come preparazione alla morte. Esercitarsi a morire ogni giorno. Viaggiatori con una valigia in mano.

 

La paura della morte come segno di una vita falsa, non buona.

 

Come vincere queste afflizioni? Con la saggezza, con la comprensione, con il voler vedere la realtà per quello che è, abbandonando ogni linguaggio e concetto. Liberandosi dell’ignoranza, dell’avversione, dell’attaccamento, dell’ego, dalla paura per antonomasia, per iniziare a vivere, a sentire, a esserci davvero.

 

Lo yoga, la meditazione, la mindfulness, che le si pratichi in modo laico oppure no, ci possono aiutare ad avere meno paura, a liberarci dai condizionamenti mentali, a interrompere il chiacchericcio mentale, quella radio perennemente accesa nella mente, per scoprire finalmente la bellezza dell’essere consapevolmente nel mondo, risvegliati, presenti.

 

“Chiunque si dedichi alla meditazione troverà sollievo al suo dolore, troverà pace nel cuore e vivrà in uno stato di coscienza che se ne sta al di là di tutti i cambiamenti, di tutte le nascite e di tutte le morti di questo mondo, libero dalla paura. ” Scrivono gli autori.

 

 

Perché come dicono i monaci tibetani:

 

“Imparare a vivere è imparare a morire, e imparare a morire è imparare a vivere”.

 

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