La mindfulness non è Xanax

La mindfulness non è Xanax

La mindfulness non è Xanax

L’altro giorno ho visto un articolo in home page sul sito della BBC il cui titolo era Il lato oscuro della mindfulness.

 

Ovviamente l’ho letto subito, ero curiosa di scoprire il lato oscuro della consapevolezza, e ho deciso d’intitolare questo mio articolo la mindfulness non è Xanax.

 

Con immensa tristezza ho scoperto che l’autore dell’articolo, David Robson, crede che la mindfulness sia un ansiolitico.

 

Robson racconta che per circa 20 anni ha lottato contro l’ansia e che si era rivolto alla mindfulness per reprimere quei sentimenti.

 

E già qui capiamo che purtroppo Robson ha praticato per molto tempo senza capire cosa sia la mindfulness, perché le pratiche meditative all’interno del percorso della consapevolezza, non servono a reprimere o a cancellare le emozioni negative o ansiose.

 

Il senso del percorso della mindfulness è quello di diventare consapevoli di tutto quello che c’è, di osservare e accettare anche i momenti di difficoltà, non scacciarli via.

 

È così che impariamo a conoscere la nostra mente per cercare -in un momento successivo- il giusto modo per rispondere a queste situazioni e capire come affrontarle.

 

Secondo Robson, invece, concentrare l’attenzione sul respiro o sul corpo dovrebbe servirgli a “calmare la sua fastidiosa voce interna e tornare alla quotidianità sentendosi energico e rinvigorito.”

 

NON FUNZIONA

 

Il giornalista scrive questo lungo articolo lamentandosi del fatto che la mindfulness per lui sembra “non funzionare più”, quindi meglio rivolgersi ad altre pratiche, alla ginnastica o al mettere un vaso di fiori sulla scrivania.

 

Spiace constatare che Robson non abbia capito proprio nulla della mindfulness e della meditazione e che la BBC gli permetta di scrivere tali castronerie.

 

Uno dei sette pilastri della mindfulness è proprio quello di non cercare il risultato.

 

La pratica di consapevolezza non deve “funzionare”, non è un ansiolitico da ingerire al bisogno e da praticare solo quando si è ansiosi.

 

Soprattutto non si può pensare che se l’ansia non se ne va dopo la pratica, il problema sia la meditazione.

 

Forse Robson ha iniziato a meditare da solo con dei video trovati online oppure ha incontrato dei pessimi maestri.

 

È un vero peccato, sia per Robson sia per chi vuole iniziare a praticare, perché leggendo un articolo così pieno di errori, magari molti non vorranno più provare a meditare.

 

LA MINDFULNESS NON È RILASSAMENTO

 

La mindfulness non scaccia via le emozioni negative, ci aiuta riconoscerle, ad ascoltarle.

 

Ci insegna a stare anche con quello che non ci piace.

 

È normale che se siamo già ansiosi, meditando l’ansia non scompaia.

 

A volte può accadere, ma a volte dobbiamo imparare a stare con quello che c’è in quel momento, e se c’è tristezza o agitazione, dobbiamo osservarle e vedere come si comporta il nostro corpo, la nostra mente.

 

Oltretutto la mindfulness non è psicoterapia, quindi non si indaga da dove viene quell’ansia e perché si è manifestata.

 

Per questo è bene rivolgersi agli psicologi.

 

Le varie pratiche mindfulness non sono training autogeno o rilassamento.

 

Robson, invece, continua a scrivere che dopo le sue sessioni si sentiva peggio di quando aveva iniziato.

 

Non si sentiva “rilassato”, il cuore batteva veloce e i pensieri erano invasivi e numerosi.

 

Racconta di come la sua mente si sentisse invasa da ricordi spiacevoli e da sentimenti di fallimento e disperazione.

 

Scrive che questi eventi erano diventati così frequenti da iniziare a usare la mindfulness solo occasionalmente.

 

QUANDO LE COSE SI COMPLICANO

 

Ora, quando le cose si complicano, e magari iniziano ad arrivare anche degli attacchi di panico veri e propri, è bene interrompere la pratica in quel momento se sentiamo che per noi è troppo.

 

“La mindfulness non è un modo per anestetizzarti.”

Jon Kabat-Zinn

 

Successivamente sarebbe il caso di contattare uno psicoterapeuta per capire cosa sta accadendo e perché, ma non c’è bisogno di abbandonare la pratica, perché meditando si impara a diventare consapevoli di quel tipo di emozioni, ci si fa amicizia, in qualche modo.

 

S’impara che ogni emozione è passeggera e che noi non dobbiamo identificarci con il pensiero o l’emozione, ma osservare l’ansia, riconoscere che c’è dell’ansia ma che noi non siamo la nostra ansia.

La mindfulness non è Xanax

Quando ci si trova di fronte a situazioni del genere, è bene essere seguiti da un istruttore, perché può accadere di avere a che fare con emozioni spiacevoli meditando o praticando yoga.

 

Accade spesso, perché all’interno della nostra mente, fermandoci in ascolto del corpo o del respiro, succedono cose che vanno a smuovere emozioni e sensazioni.

 

La meditazione non serve per stare bene, per rilassarsi, ma per diventare consapevoli del nostro panorama mentale, emozionale e fisico.

 

Oltretutto se non ci spaventiamo di fronte all’ansia o al disagio, e non interrompiamo subito la pratica, possiamo scoprire che sotto la turbolenza spesso si cela la calma.

 

Ma prima dobbiamo passare attraverso la tempesta.

 

Poi, con il tempo e con la pratica, potremo anche scoprire che magari era solo un po’ di semplice pioggerellina.

 

A volte basta avere il coraggio di sporgersi, di guardare oltre, ed è bene essere guidati lungo questo percorso.

 

LA MINDFULNESS NON È XANAX

 

Con la pratica e l’allenamento s’imparerà ad andare oltre, a fermarsi prima di reagire, a riconoscere i meccanismo mentali ed emozionali senza cedere a essi, per non ricadere nei soliti automatismi.

 

Come dice Jon Kabat-Zinn, la mindfulness insegna a digerire queste difficoltà, elaborarle e poi trovare il giusto modo per affrontare i problemi.

 

L’articolo di Robson è lungo e cita anche varie ricerche scientifiche sulla mindfulness, in cui si parla di stati di dissociazione, depressione, disturbi del sonno dovuti alla mindfulness, ma purtroppo Robson non spiega tutto fino in fondo, usa solo dei termini quasi per spaventare chi vuole iniziare a meditare.

 

Bisogna far sapere che la meditazione, lo yoga, la mindfulness, non sono mai state pratiche adatte per gli schizofrenici, per chi ha tendenze suicide, per chi ha appena avuto un lutto, per chi ha un disturbo da stress post-traumatico.

 

Tutto questo, purtroppo, spesso non viene detto neanche dagli stessi insegnanti, e troppi vogliono far credere -per una questione di marketing- che le pratiche meditative facciano stare sempre bene, che siano miracolose, salvifiche, che guariscano da tutto, ma non è così.

 

Possono essere utili per migliorare il rapporto con se stessi, per gestire l’ansia, la depressione, l’insonnia, e molte altre patologie, ma non si può pensare che curino l’ansia o la depressione.

 

Spesso alleviano dei sintomi, altre volte possono far emergere un profondo disagio di cui magari non eravamo nemmeno a conoscenza.

 

IL RISVEGLIO

 

La mindfulness, e così lo yoga e altre pratiche, ci mettono di fronte a noi stessi.

 

Non possiamo fingere.

 

Tutto quello che non va in noi o nella nostra vita emerge, viene fuori, per questo la meditazione è un percorso di risveglio.

 

E ricordiamoci anche che la meditazione è una pratica potente usata da secoli dai monaci per raggiungere l’illuminazione, la verità ultima.

 

Qui in Occidente è stata “liberata” della sua componente spirituale (nella mindfulness e in alcuni tipi di yoga moderno) per permettere a tutti di trarne i benefici senza per forza seguire un percorso religioso.

 

Le testate giornalistiche dovrebbero iniziare a far scrivere gli articoli sulla meditazione, la mindfulness e lo yoga a persone competenti, che magari insegnano questo tipo di pratiche.

 

Ci vuole competenza e preparazione, altrimenti si rischia di confondere ancora di più le idee alle persone.

 

 

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